BIGNESS

BIGNESS
Rem Koolhaas, Quodlibet, 2006

Bigness - la sola parola dice molto. L’unica caratteristica fondamentale, che le da identita’ e’ la dimensione. E’ una rivoluzione senza programma, dove l’unica cosa importante e’ la quantita’.
“La Bigness e’ l’architettura estrema. Pare incredibile che il puro e semplice dimensionamento di un edificio possa dar vita a un programma ideologico indipendente dalla volonta’ dei suoi progettisti. Di tutte le possibili categorie, quella della Bigness non sembrerebbe meritare un “manifesto”: sminuita come questione intellettuale, pare essere in via di estinzione, come un dinosauro, per la sua goffaggine, lentezza, mancanza di flessibilita’, problematicita’.”
(pag. 13)
“Gli effetti combinati di queste scoperte hanno prodotto strutture piu’ alte e piu’ profonde - piu’ grandi...”
(pag. 14)
Con questo manifesto, Koolhaas ci offre la rinuncia, sia estetica che sociale dell’architettura. Sottolinea in un modo molto forte il carattere antiaccademico  ed antiartistico della Bigness.
Bigness e’ priva di teorie e cio’ porta a non sapere come utilizzarla, dove metterla, come programarla. I nostri unici raporti con la Bigness sono i erori. La sola Bigness e’ una teoria.
“L’ascensore - con la sua possibilita’ di creare collegamenti meccanici anziche’ architettonici - e il complesso di invenzioni che da esso derivano, annullano e svuotano il repertorio classico dell’architettura. Questioni di composizione, scala metrica, proporzioni, dettaglio sono ormai accademiche. L’arte dell’architettura e’ inutile nella Bigness.”
La dove l’architettura pone certezze, la Bigness pone dubbi: trasforma la citta da una sommatoria di evidenze in un accumulo di misteri. Cio che si vede non corrisponde piu’ a cio’ che realmente si ottiene.
... la Bigness non fa piu’ parte di alcun tessuto. Esiste; al massimo, coesiste. Il suo messaggio implicato e’ : fanculo il contesto.”
(pag. 15)
“L’assenza di una teoria della Bigness - qual ‘e il massimo che l’architettura puo’ fare? - e’ la piu’ estenuante debolezza dell’architettura. In mancanza di una teoria della Bigness, gli architetti vengono a trovarsi nei panni dei creatori di Frankenstein: artefici di un esperimento parzialmente riuscito, i cui risultati stanno impazzendo e sono percio’ screditati.”
(pag. 19)
La Bigness puo’ trasformare l’architettura in un nuovo tipo di citta’ dove non esiste piu’ nessun “qualcosa” colettivo, ma diventa tutto un meccanismo organizzativo. La Bigness entra in competizione con la citta’, se ne appropria, dopo di che diventa “la citta’”. 
La Bigness e’ una iper-architettura.
“La Bigness lascia il campo al dopo-architettura.”
(pag. 24)


Linda Legovic



Parole chiave accessorie: identità, modernizzazione, servizi
Bigness: frutto del big bang architettonico scatenato cento anni fa, le tecnologie e i nuovi materiali hanno costituito un insieme di mutazioni capaci di provocare la nascita di un'altra specie architettonica.
Inizialmente la bigness era una condizione priva di teorizzazioni, una "rivoluzione senza programma".
La migliore motivazione per affrontare la bigness è quella di relazionarsi con una architettura estrema. E’ una teorizzazione che parte quasi esclusivamente dal dimensionamento di un edificio, e che da vita ad un programma ideologico indipendente dalla volontà dei suoi progettisti.
Nel 1978, la bigness sembrava un fenomeno del e per il Nuovo Mondo, ma nella seconda metà degli anni Ottanta, si sono moltiplicati i segni di una nuova ondata di modernizzazioni che avrebbe coinvolto il Vecchio Mondo, dando origine ad episodi di un nuovo corso, persino nel continente “finito”.
La bigness è sfociata in una doppia polemica: contro i precedenti tentativi di integrazione e concentrazione, e contro le contemporanee teorie che mettevano in discussione la possibilità dell’Unità e della Realtà come categorie agibili, e si rassegnavano all’inevitabile decomposizione e dissoluzione dell’architettura.
L'assenza della bigness viene vista come la più grande debolezza dell'architettura, perché gli architetti si trovano ad essere una sorta di creatori di Frankenstein: artefici di un esperimento parzialmente riuscito, i cui risultati stanno impazzendo, e sono perciò screditati.
La bigness distrugge, ma è anche un nuovo inizio, può ricomporre ciò che spezza; è il tema che ingegnerizza l'imprevedibile; si basa su regimi di libertà, sull'assemblaggio delle massime differenze.
La bigness implica l'interdisciplinarietà, coloro che realizzano la bigness costituiscono un team. La bigness significa resa alle tecnologie, agli ingegneri, agli appaltatori, ai realizzatori, ai politici, e ad altri ancora.
L'accumulazione di bigness, genera un nuovo tipo di città, annulla il senso della collettività che prima era racchiuso nella strada, la strada diventa un mero segmento del piano metropolitano continuo in cui le vestigia del passato fronteggiano le attrezzature del nuovo, in una inquieta situazione di stallo. La bigness è in grado di essere ovunque in quel piano; non solo la bigness è incapace di stabilire delle relazioni con la città classica- al massimo può coesistere con essa- ma nella quantità e complessità dei servizi che offre, è essa stessa urbana.
La bigness si configura come l'antagonista della città, se l'urbanistica genera delle potenzialità, e l'architettura le sfrutta, la bigness schiera la generosità dell'urbanistica contro la grettezza dell'architettura.
La bigness, per la sua totale indipendenza dal contesto, è la sola architettura che può sopravvivere, che può sfruttare la condizione di tabula rasa ormai globale essa non trae ispirazione da dati troppo spesso spremuti fino all’ultima goccia di significato, essa gravita verso le aree più promettenti dal punto di vista infrastrutturale, essa è, in definitiva, la sua stessa ragion d'essere.
Non tutta l’architettura, non tutti i programmi, non tutti gli avvenimenti saranno inghiottiti dalla bigness.
Ci sono molti “bisogni” troppo confusi, troppo deboli, troppo indecorosi, troppo provocatori, troppo segreti, troppo sovversivi, troppo “niente” per entrare a far parte delle costellazioni della bigness.
La bigness è l'ultimo baluardo dell'architettura, una iper-architettura.
I contenitori della bigness saranno i punti di riferimento in un paesaggio post architettonico – un mondo in cui l’architettura è stata eliminata in modo immutabile, definitivo, eterno.
La bigness lascia il campo al dopo-architettura.
Alessandra Dall'Ara



“Junkspace, per un ripensamento radicale dello spazio urbano”
Rem Koolhaas
Quodlibet, edizione anno 2006
a cura di Gabriele Mastrigli
Mattia Gregorio
Bigness (ovvero il problema della grande dimensione)
Rem Koolhaas con la parola Bigness si riferisce alla dimensione del Grande edificio, dimensione che non può più essere ricondotta a un solo fatto architettonico ma deve essere considerata come un insieme di parti autonome legate al tutto.
“La Bigness è l’architettura estrema. Pare incredibile che il puro e semplice dimensionamento di un edificio possa dar vita a un programma logico indipendente dalla volontà dei suoi progettisti.” (pag.13)
Questo concetto non è mai stato considerato come un problema da affrontare e da risolvere e viene ridotto a semplice dubbio intellettuale “ma, in verità, solo la Bigness può portare alla piena comprensione dell'architettura e dei campi a essa collegati.” (pag.13)
Le conquiste tecnologiche ottenute dal ‘900 hanno permesso una rivoluzione a livello architettonico; infatti le numerose invenzioni come l’ascensore, l’elettricità, il condizionamento dell’aria, l’acciaio, ecc. “(…) hanno prodotto strutture più alte e più profonde - più grandi - come mai prima ne erano state concepite (…).” (pag.14) ma allo stesso tempo questa nuova architettura perde il carattere classico, accademico e artistico che lo aveva influenzato per secoli.
Un altro problema a cui Koolhaas cerca di dare una risposta è la quasi totale mancanza di teoria della Bigness, definendola come “(…) una rivoluzione senza programma.” (pag.14), dove l’unica cosa veramente importante è la quantità.
La debolezza dell’architettura quindi è data della mancanza della teoria della Bigness che porta a degli esperimenti parzialmente riusciti, in quanto non si sa come metterla, programmarla, utilizzarla e gli unici rapporti che abbiamo con essa sono gli errori fin ad ora commessi.
Nella Bigness, la distanza tra nucleo e involucro cresce a tal punto che la facciata non può più rivelare ciò che avviene all'interno. (…) architettura degli interni e architettura degli esterni divengono progetti separati (…). Là dove l’architettura pone certezze, la Bigness pone dubbi: trasforma la città da una sommatoria di evidenze in un accumulo di misteri. Ciò che si vede non corrisponde più a ciò che realmente si ottiene. (…) Tramite la sola dimensione, tali edifici entrano in una sfera amorale (…). Il loro impatto è indipendente dalla loro qualità. Tutte insieme, queste rotture implicano la rottura definitiva, quella radicale: la Bigness non fa più parte di alcun tessuto. Esiste; al massimo, coesiste. Il suo messaggio implicato e’ : fanculo il contesto.” (pag.15)
La Bigness è l’unico strumento che può guidare l’architettura verso la modernizzazione, partendo dal disordine e dalla divisione delle parti fino a ricostruirne l’Unità, cercando di “(…) reinventare il collettivo e rivendicare il massimo di possibilità.” (pag.20)
“La Bigness distrugge, ma è anche un nuovo inizio. Può ricomporre ciò che spezza.” (pag.20); infatti essa si basa su regimi di libertà e unisce in un unico contenitore eventi molto differenti tra loro.
La Bigness favorisce la quantità invece della qualità ed estende le identità fra le funzioni, piuttosto che limitarle; questo legame mostra la specificità di ogni elemento che possiede un carattere di indipendenza e interdipendenza e si mantiene allo stesso tempo separato dagli altri.
Di conseguenza da una parte avviene la perdita di autonomia dell’architettura, che diventa dipendente, dall’altra la Bigness diventa impersonale; infatti essa non è più materia specifica del solo architetto ma implica l'interdisciplinarietà e la realizzazione di un team.
“(…) La Bigness significa resa alle tecnologie, agli ingegneri, agli appaltatori, ai realizzatori, ai politici, e ad altri ancora. Promette all'architettura una sorta di status post-eroico, un riallineamento alla neutralità.” (pag.23)
La Bigness può trasformare l’architettura e creare un nuovo tipo di città con un differente meccanismo organizzativo.
“ La Bigness è in grado di esistere ovunque (…). Essa non solo è incapace di stabilire delle relazioni con la città classica - al massimo può coesistere con essa - ma nella quantità e complessità dei servizi che offre, è essa stessa urbana.” (pag.23)
La Bigness che non ha più bisogno della città, entra in competizione con essa, se ne appropria e dopo di che diventa essa stessa “la città”.
“Se l'urbanistica genera delle potenzialità e l'architettura le sfrutta, la Bigness schiera la generosità dell'urbanistica contro la grettezza dell'architettura.” (pag.23)
La Bigness è la sola architettura che può resistere alla condizione ormai globale di tabula rasa, poiché non ha bisogno di essere contestualizzata nello spazio e si colloca nelle aree più interessanti dal punto di vista infrastrutturale.
“La Bigness è l’ultimo baluardo dell’architettura (…), una iper-architettura (…). Lascia il campo al dopo-architettura.” (pag.24)

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